La scienza della sfortuna

Caso e distorsione mentale: secondo gli scienziati, sono gli ingredienti perfetti della “mala sorte”. E ci spiegano come evitarla. 

La sfortuna non è affatto bendata, ci vede benissimo. Alzi la mano chi non si sente perseguitato dalla iella quando il treno fa ritardo, quando piove nel week-end o quando, all’esame, viene chiesto l’argomento che non ha studiato. 

Ma la sfortuna esiste davvero? Secondo qualcuno, sì. È il caso dei due ricercatori della John Hopkins University che, in uno studio del 2014, hanno affermato che i tumori sono dovuti alla “bad luck”, scatenando molte discussioni. In realtà, gli scienziati si riferivano alle mutazioni casuali del DNA: più i tessuti si rinnovano, più corrono il rischio di ammalarsi. Per i genetisti, sarebbe più corretto parlare di “chance”, termine che non ha accezioni positive o negative. In biologia, infatti, il fattore caso è determinante perché le mutazioni casuali del DNA spingono l’evoluzione della specie. 

Il caso, quindi, è la legge che spesso governa la realtà. Tuttavia, siamo noi stessi a non accettarlo come tale e a mutarlo in sfortuna, attraverso vari meccanismi psicologici. L’uomo tende a sottostimare il contributo della sorte perché l’idea che gli eventi sfuggano al suo controllo lo mette a disagio. E, quindi, cerca schemi e nessi causali, spesso inesistenti. Cerca un colpevole, un’entità su cui scaricare la responsabilità di sconfitte e fallimenti. Ciò non vale per il contrario: nessuno, infatti, accetta la casualità come ragione del proprio successo. Una vittoria è sicuramente imputabile alle proprie abilità personali. 

In questo meccanismo, entrano in gioco la memoria selettiva e la distorsione della realtà. La nostra mente, infatti, è portata a ricordare ciò che ci va storto. Al termine di un esame, ad esempio, ricordiamo maggiormente le domande a cui non abbiamo saputo rispondere. Prendiamo in considerazione, poi, il paradosso della coda autostradale: le file di auto che ci stanno intorno risulteranno sempre più scorrevoli della nostra, magari proprio nel giorno in cui abbiamo un colloquio di lavoro. Tendiamo a notare le esperienze negative e lo facciamo distorcendo la realtà per adattarla alle nostre sensazioni. 

Un ulteriore fattore determinante è il confronto. Guadagnare meno del nostro collega, non importa quanto sia alto il nostro stipendio, ci fa sentire più sfortunati. Per Daniel Kahneman, Nobel per l’economia nel 2002, molti sarebbero più felici di percepire meno pur di avere una busta paga superiore a quella del collega. Per lo stesso motivo, un atleta preferisce vincere una medaglia di bronzo più che quella di argento: i secondi classificati sono portati a pensare che, sforzandosi di più, avrebbero potuto vincere; i terzi, invece, che sforzandosi di meno, non sarebbero neppure saliti sul podio. 

La soluzione è resistere e pensare positivo. Secondo il professore di psicologia Paolo Legrenzi, se solo pensassimo a ciò che sarebbe potuto andare peggio, ci sentiremmo subito più fortunati. “A volte”, continua, “grandi sfortune, considerate nel breve periodo, si rivelano, poi, le più grandi fortune che ci potessero capitare”.

Pietro D'Ambrosio

Classe 1995 e svariati sogni nel cassetto. Diritto, politica e astronomia sono le mie passioni: razionale al punto giusto, nel tempo libero mi lascio affascinare dall’infinito. Passerei intere giornate a leggere classici perché in uno vi ho letto che “la bellezza salverà il mondo”. E ci credo follemente.